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Varsavia e le sue feste. Tra seminterrati e ospedali abbandonati, la seconda faccia della capitale polacca.

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Dopo tanti viaggi la mia concezione di distanza e tempo è notevolmente mutata. Se prima un viaggio in macchina Milano – Roma sembrava una tratta lunghissima e dura da affrontare. Adesso, dopo ore, o addirittura giorni, passati su bus, traghetti, aerei, la mia idea di “lungo viaggio” è cambiata. Questo perché con il passare degli anni, e con la continua voglia di spingermi sempre più in là, il mio senso di adattamento ha dovuto scendere a compromessi, accettando i lunghi e duri spostamenti. Ho passato interi giorni su un traghetto, dormendo sopra un divano quando dovevo raggiungere Honningsvåg, ultimo porto prima di Capo Nord. Oppure, mi sono ritrovato a condividere due posti di un bus con il bambino della signora affianco per 15 ore, per arrivare a Santa Cruz de la Sierra, in tempo per riuscire a prendere un volo. Quindi quando sulla biglietteria della stazione di Vilnius, leggo che per arrivare a Varsavia, ultima tappa di questo viaggio, ci impiego 8 ore, non mi sale quel malessere che porta la sola idea di stare seduto nello stesso posto per tutto quel tempo. So già cosa farò. Ascolterò musica, leggerò, ma soprattutto, farò perdere i miei occhi nel paesaggio fuori dal finestrino, così che la mia mente possa volare tra le colline e le case che il mio sguardo incrocia. E come un’aquila che vola tra le montagne, alla ricerca di rami e fogliame per costruire il suo nido, anche il mio pensiero volteggerà tra la mia mente pescando ricordi e speranze per costruire il mio di nido, dove con leggerezza mi addormenterò trasformando le mie riflessioni in un sogno.
Ed è proprio da un bellissimo sogno che vengo svegliato dalle luci della stazione di Varsavia. Ormai è sera, e c’è un vento fresco. Il solito vento che mi accoglie ogni qual volta che arrivo in Polonia. Come al solito decido di incamminarmi per le strade della città alla ricerca dell’ostello, senza usufruire dei mezzi pubblici. Dopo una abbondante mezz’oretta arrivo in un ostello meraviglioso. Fuori dalla struttura è pieno di giovani ragazzi che fanno festa, e non appena entro in reception vengo accolto da 4 ragazzi che ballano invitandomi con loro. Faccio il check-in e finisco in una camerata di sole ragazze italiane, che saluto velocemente per tornare a danzare con gli altri. La serata finisce in un pub, che più che un pub è uno scantinato a degustare vodka. Inutile dire che il mix stanchezza-vodka, mi uccide e finisco a dormire dopo poco più di un’ora.
La mattina dopo mi sveglio e vedo che nella mia camerata c’è un ragazzo che va in giro con una maschera a gas sovietica. Quanto cazzo sono belli gli ostelli? Come fate a non andarci?

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Vabbè, tornando a Nico, il ragazzo della maschera a gas. Iniziamo a chiacchierare, e mi dice che è Americano e sta facendo un giro dell’Europa. Lo invito a mangiare con me e decidiamo di andare ad ingozzarci da KFC (ho tutto il tempo per degustare la cucina polacca), dopo di che andiamo anche a fare una spesa per mangiarci una pasta in serata e bere un paio di birre. La giornata vola tra bevute e chiacchiere ed una passeggiata nella città vecchia. L’architettura ricorda molto le città Baltiche, anche se il quartiere è molto più piccolo delle altre città. La sera, dopo una bella pasta cucinata in ostello, e qualche birra decidiamo di metterci a dormire relativamente presto. E proprio mentre stavo per fare l’errore di mettermi a letto, appaiono in camerata Brune a Lieve, due ragazze che stanno facendo un Interrail. La prima, una ragazza brasiliana che parla tipo 7 lingue, la seconda una ragazza Olandese. E dal fatto che stavamo andando a dormire, ci troviamo ad una festa in riva al fiume, con 50 persone e un dj che sta suonando assieme ad un tastierista e ad un chitarrista.
E ridendo, ballando, e chiacchierando finiamo anche ad osservare l’alba che si mostra in tutta la sua bellezza su Varsavia, inaugurando un altro giorno di viaggio.
La mattina dopo è come se si fosse creato una sorta di gruppo viaggio composto da backpacker.
Un Italiano, un Americano, un’olandese e una brasiliana. Ci svegliamo con molta calma, la visione dell’alba è stata bellissima ma ha comportato anche un prezzo da pagare. Passiamo la giornata in un’aurea di stanchezza, camminando per la città e perdendoci tra le sue vie seguendo soltanto l’istinto. Varsavia è una città strana. E’ affascinante ma non troppo. Non ti colpisce in faccia come un gancio di un pugile con la sua bellezza, anzi il contrario. Ti accarezza piano, e devi essere bravo tu a cogliere la sua gentilezza. Dopo aver passeggiato tutto il pomeriggio, facciamo una spesa e capisco che anche questa sera mi toccherà cucinare per tutti una pasta, che sarà sicuramente di dubbio gusto dati gli ingredienti di dubbia qualità. Quando si è italiani, il lavoro da chef in ostello è assicurato. Infatti come previsto la pasta non è tra le migliori, ma per i miei commensali è una delle paste più buone che abbiano mai mangiato. Non capisco se è gentilezza, oppure proprio mancanza di esperienza gastronomica. Dopo la cena conosciamo James, un ragazzo che vive a Varsavia che è amico delle persone che vivono all’interno dell’ostello. Con lui e altri psicopatici polacchi finiamo in un locale dove passano musica techno, che ricorda molto i club underground berlinesi. Con Lieve si crea un bel rapporto e da buona Olandese mi fa ubriacare di birra polacca.
Balliamo e ci divertiamo come pazzi. In testa mi nasce l’idea di posticipare il volo di ritorno al giorno dopo, dato che già domani sera dovrei lasciare questa città.
E tra techno, birra e balli finiamo anche questa notte ad osservare il sole che illumina il cielo mattiniero di Varsavia. Torniamo in ostello barcollando e finiamo a dormire sereni come bambini tra le braccia dei propri genitori.
Il giorno dopo, l’idea di posticipare il volo diventa realtà. Durante un pranzo, dove finalmente degusto la cucina polacca tra “pierogi” e petti d’anatra alla mela, compro un altro volo il giorno dopo, così da poter fare una gran bella festa di addio insieme a questo gruppo, che posso definire senza problemi, amici. Continuiamo a girare la città, scoprendo luoghi nascosti e piazze dove potersi sedere e bere qualcosa tutti assieme, ma la sera arriva puntuale come un treno giapponese.
I ragazzi della reception ci dicono che c’è una festa in un locale vicino alla stazione, in un ospedale abbandonato. Mangiamo un hamburger e ci ritroviamo per strada con un altro pazzo psicopatico polacco che per portarci al locale ci fa fare un walking tour dei luoghi che incontriamo.
Probabilmente sotto effetto di droghe, ci spiega l’utilità dei muri prendendoli a testate, poi come luogo di interesse ci indica un pakistano per comprare della vodka prima di entrare nel pieno della festa. Una volta dentro il locale è inquietante. Un ospedale abbandonato, il Nowa Jerozolima, dove dentro ci sono 500 ragazzi che ballano e fanno festa.

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Bellissimo. Ritroviamo alcuni ragazzi degli ostelli e ci facciamo due risate.
Con Lieve, balliamo sorridendoci. È una ragazza magnifica.
Continuiamo a fare festa fino all’alba e oltre. È incredibile la complicità che si è creata con questi ragazzi in così poco tempo. Ed è tutto merito del viaggio in solitaria.
Ovviamente torniamo in ostello che il sole è già alto, e i primi ospiti sono in piedi per godersi al meglio la città, cosa che noi non abbiamo fatto nella nostra permanenza qui.
Mi addormento assieme a Lieve, la sua pelle è così morbida.
Purtroppo poco dopo, la sveglia del telefono squilla per colpa del check-out.
La mattina dopo è fatta di malinconia e addii, ognuno va per la sua strada dopo tre giorni di completa complicità. C’è chi torna a casa, chi invece va nella sperduta macedonia, e chi invece sale su un treno e si dirige in direzione Cracovia.
Se ci si rivedrà lo dirà solo il tempo. Ma sicuramente un giorno, vicino o lontano che sia, tra le infinite strade di questo mondo i nostri occhi si incroceranno nuovamente.
Nel frattempo, oltre il vetro del finestrino dell’aereo la mia mente vola tra i ricordi. E senza andare molto lontano si sofferma sui giorni passati, saltando dalla felicità di aver incontrato certe persone, e la malinconia di averle dovute salutare.

Il Bardo

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Ultima modifica 26 de Ottobre de 2016

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