Marocco: Merzouga con il suo deserto fatto di sabbia arancione ed infinite stelle.

14 Dicembre 2016 - Redazione

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Il Marocco è un posto strano. In alcuni momenti lo odi, vorresti scappare da tutto quel casino di strade affollate e rumore, e poco dopo con il pensiero in pace capisci che alla fine è bello così, nella sua semplicità e pazzia. Devi solo sforzarti di comprenderlo. Se ti sgozzano un pollo davanti agli occhi, e qui gli animalisti impazziranno, devi solo avere l’idea ottimista di quanto sarà buono quel pollo una volta cucinato dentro un tajine, accompagnato da mille spezie ed erbe saporite. Devi semplicemente entrare nel modo di pensare della gente che abita quelle case. E così dovrebbe essere in tutto il mondo. Ma la maggior parte delle volte, quando siamo in viaggio, ci troviamo a sentirci superiori dalle popolazioni locali che incontriamo. Non accettiamo che certe pietanze vengono mangiate, o che certe usanze vengono celebrate. Abbiamo il brutto vizio di giudicare, dalla presunta superiorità che ci ha insegnato un mondo occidentale, la cultura che ci sta ospitando. Mentre dovremmo solo tornare ad essere come i bambini a scuola, ed essere pronti a trarre insegnamento da ogni piccola cosa che vediamo, ascoltiamo, assaggiamo e annusiamo. Iniziando ad essere così, cittadini del mondo. Questo accadde con le popolazioni berbere che incontrai nel deserto marocchino, e questo verrà raccontato qui sotto.

Ci svegliamo con il suono odioso della sveglia. Ci alziamo, chiudiamo gli zaini e andiamo a fare la colazione. Pane, marmellata e msaman. Buono buono. Ci riempiamo per bene lo stomaco e poi ci avviamo verso il nostro minibus, direzione deserto. Mi addormento come un bambino la prima ora di tragitto. Mi sveglio e siamo fermi perché duecento/trecento pecore ci sono davanti. Scatto una foto. Aspettiamo 10 minuti che le pecore vadano sulle montagne a pascolare e ci rimettiamo in viaggio. Dopo altre due ore di viaggio ci fermiamo a Tinghir Oasis, per una visita ai giardini e alle comunità berbere. La guida è molto simpatica e parla dei berberi come se fossero i più bravi al mondo. Questo è un attaccamento che ho visto molto in questo paese. Bandiere ovunque e un senso di patriottismo decisamente elevato. Visitiamo la casa di un berbero che ci spiega la metodologia per fare i tappeti, e poi inizia con una vera e propria vendita di essi mostrandoceli uno ad uno, dicendo che nel caso si può pagare con carta di credito.

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Vivono nelle montagne, quando non sono nelle montagne vivono in case di fango, però hanno il bancomat. Bah, peccato aver rovinato così l’atmosfera, perché mi piaceva davvero tanto. Questa versione dello spremi turista ha rovinato un po’ tutto. Poco dopo ci dirigiamo in una scanalatura davvero affascinante.
Dove camminiamo al suo interno e ne ammiriamo le forme. La roccia levigata dal vento ha sempre il suo fascino. Tutti comprano sciarpe per il deserto, ma io ho la mia, regalata anni fa dal mio vecchio e caro nonno. Poi risaliamo in macchina, ci fermiamo a mangiare nel solito posto a menù fisso spremi turista e poi ripartiamo. Direzione Merzuga, l’ultimo paese prima del deserto. Durante il viaggio parlo con l’autista se è possibile prendere un bus e andare direttamente a Fès, invece che tornare a Marrakech. Dice che mi fa sapere. Nel caso si aggregano anche due giapponesi. Adoro il loro entusiasmo in tutto. Dopo diverse ore di strada arriviamo a Merzuga, ci accoglie un rinfrescante tè alla menta e in lontananza vediamo le dune con relativi cammelli ad aspettarci. La sabbia, però ha un colore diverso dalla sabbia del deserto egiziano. È di un arancione meraviglioso, che quando splende al sole risulta ancora più bello. Beviamo il nostro tè e saliamo sui dannati cammelli. Un’ora di cammellata nel mezzo del deserto con il sole che tramonta, disegnando meravigliosi disegni di ombre su questa tela di sabbia arancione, e finalmente arriviamo alle nostre tende.

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Scendendo dal cammello ritrovo le mie palle che erano finite in gola. Dio che dolore.
Vabbè, al nostro gruppo si aggiunge un gruppo e di rumeni sulla 30ina. Ci sistemiamo. Le tende sono organizzate con materassini e coperte, tante coperte. Dopo aver messo via gli zaini nelle tende, arriva il solito tè alla menta e dei magnifici gattini. Mi impossesso di uno e mi si addormenta sopra i pantaloni facendo le fusa.
Nel frattempo con alcune tedesche belghe del nostro gruppo parliamo della loro e nostra vita. Hanno tutte sulla 30ina, lavori fissi e ogni tanto viaggiano. Mi consigliano Guatemala e Nuova Zelanda. Dopo poco arriva il mangiare. Tajine di pollo. La fame è talmente tanta che viene divorato. Con l’aiuto dei gatti si pulisce completamente il piatto. Nel frattempo il cielo sta diventando qualcosa di indescrivibile. Finiamo di mangiare e ci muoviamo attorno ad un fuoco improvvisato e i berberi cantano qualcosa. Poi passano la palla ai rumeni che anche loro cantano qualcosa. Sono simpatici. Chiacchieriamo, cantiamo e ridiamo. Poi non so a chi viene l’idea di scalare una duna. Partiamo pensando che sia una cazzata e ci troviamo a fermarci ogni 5 minuti per riprendere fiato. Ma una volta arrivati su, lo spettacolo del cielo beh…
Un cielo così luminoso non l’avevo mai visto in vita mia.
Mi vengono in mente le parole di “Anna e Marco” di Dalla. “ E la luna è una palla ed il cielo il biliardo”. Uno spettacolo così difficilmente verrò rimosso dalla mia mente.
Un cielo così grande ed illuminato, che ti fa capire che davanti hai davvero l’infinito.
Ci scaviamo delle fosse per sederci sopra la sabbia ancora calda ed ammiriamo lo spettacolo naturale. C’è chi si addormenta e chi vive il momento con il nodo alla gola.
Davvero spettacolare. Ma il freddo inizia a salire ed è ora di tornare giù. All’inizio della discesa si è tutti ordinati, poi la gente inizia a correre giù e rotolare e parte il delirio. Scendiamo le dune correndo e lanciandoci sulla sabbia ormai fredda.
Rischiamo di farci davvero male ma poco importa.
Torniamo alle tende ed un fuoco timido ci scalda. Alcuni vanno dormire mentre altri stanno a parlare attorno al fuocherello acceso col bambù.
I berberi ci fanno degli indovinelli, alcuni idioti, alcuni intelligenti prima di andare a dormire. L’ultimo che ci fanno prima che si spenga il fuoco è questo.
“Cos’è quella cosa che mangia sempre, che quando muore va nel cielo. Che non è un animale né un essere umano.
Suggerimento: è natura.”
Ci lasciano con questo indovinello che ci perseguita la testa. La sabbia ormai è gelata, nera. Non ha più quel colore arancio che aveva al tramonto.
Il freddo della sabbia si impadronisce di tutto e ci fa gelare. Mi metto a letto con tutto ciò che possa riscaldarmi e scrivo mentre il vento mi sussurra la sua buonanotte.

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“Camminai su sabbie
di color grigio
Sabbia
di ghiaia
mescolata
a fine polvere giallastra
con l’odore
di focaccia oleosa nell’aria
che stringe lo stomaco
e innalza
l’appetito
Sabbie
dove si incontrano
barche
grandi come palazzi
e motorini
grandi come insetti

Camminai su sabbie
di colore nero
Sabbia
come polvere da sparo
sparata
da un vulcano
Dove ora camminano
morbide pecore
e morbidi capelli
sotto cieli luminosi
di nuvole verdi
Sabbie
dove si incontrano
ghiaccio
fuoco
e aria creando l’isola dei sogni

Camminai su sabbie
di color bianco
Sabbia
di fine farina
dove bambini sempre sorridenti
si tuffano dalle barche di legno
E le isole
diventano casa di esploratori
alla ricerca di un paradiso
Sabbie
dove si incontrano
persone
di ogni nazione
che fanno parte
dello stesso mondo

Camminai su sabbie
di color arancio
Sabbia
forgiata dal caldo
di un continente nero
sempre sottovalutato
Con dune
disegnate da un pittore
chiamato vento
Sabbie
dove si incontrano
gli occhi
e i cieli
da quanto
sembrano vicini

Camminai su sabbie
di color rosa
Sabbia
talmente levigata
dalle carezze
da diventare
pelle morbida
Pelle su cui
scivolare dolcemente
Pelle
dove si incontrano
tutti i sapori della terra
tutti gli odori del mondo
tutte le sensazioni
che pensavo
non esistessero prima”

Il Bardo

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