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Tupiza, Bolivia. Dove dietro rocce rosse e mani di bambini si ritrova la propria anima nascosta.

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L’autunno sudamericano non era ancora arrivato.

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Il sole appena nato riscaldava l’aria mattutina di La Quiaca, ultima cittadina prima di entrare in terra boliviana. Mi caricai lo zaino sulle spalle e mi incamminai verso la frontiera.

Alle 08.08 con l’ufficializzazione di un timbro grigio feci il mio ingresso in Bolivia. Alle spalle mi lasciavo l’Argentina, paese che immediatamente scoprii estremamente differente. Infatti appena passata la frontiera mi resi conto di essere entrato in una realtà completamente diversa. Le persone per le strade non vestivano più blue jeans e magliette colorate, ma bensì abiti locali.

Quasi tutte le signore portavano sul capo una bombetta e indossavano lunghe gonne, sulla schiena i loro bambini che dormivano silenziosi avvolti dentro colorati aguayo.

Con il loro respiro sembravano tenere il ritmo di questo continente così lento e allo stesso tempo così puro.
Mi incamminai per la stazione e presi il bus per Tupiza. In poco più di tre ore arrivai in questa cittadina da far west. Chiesi a dei ragazzi incontrati in stazione un buon ostello e me ne consigliarono uno che aveva l’insegna fatta di cactus secchi.

Arrivato mi feci dare un letto in una camerata da 10 per tre euro e dopo aver lasciato lo zaino andai al piano terra dove conobbi tre danesi che a mia insaputa sarebbero diventati i miei compagni di viaggio per tutta la mia permanenza in Bolivia.

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Jonas, Frederick, Thore.

Dopo aver fatto due chiacchiere veloci mi chiesero se volevo aggregarmi a loro per fare un tour nei canyon circostanti di Tupiza con dei quad. Accettai senza problemi, ma dovevamo aspettare le tre del pomeriggio per partire. Facemmo un giro per questo villaggio colorato che sarebbe potuto diventare un set per il grande Sergio Leone e ci fermammo a mangiare al mercato metà pollo intero con del riso e patate ad un prezzo irrisorio (15 pesos, ovvero quasi 2 euro).

Prima di andare a prendere i quad decidemmo di prenotare anche la jeep che il giorno dopo e per i seguenti quattro giorni ci avrebbe portato a scoprire lagune colorate, geyser, vulcani e per finire l’immenso Salar De Uyuni. Prenotammo e dopo rifornimenti di acqua e birra arrivarono le tre e andammo a recuperare i quad fuori Tupiza con la nostra guida di nome Miguel, un ragazzo di 20 anni che come tutti i boliviani ne dimostrava cinque in meno.

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I quad erano due e ci trovammo a coppie. Io andai col buon Thore.

Con la sabbia che ci entrava negli occhi raggiungemmo i vari canyon appena fuori la città.
Le rocce a punta punzecchiavano il cielo, mentre il sole ci bruciava le braccia facendoci arrossare la pelle. Noi con i nostri quad eravamo il solo rumore che disturbava quella quiete naturale quasi surreale. La prima tappa era un canyon dove dopo venti minuti di cammino si arrivava ad una fonte d’acqua e ad una cascata. Era un luogo che trasmetteva una sorta di magia. Rimanemmo lì a chiacchierare un paio di minuti sorseggiando birra per poi tornare in strada. Beh in realtà non esistevano strade, noi seguivamo semplicemente Miguel e la sua moto che ci guidava nello sterrato sabbioso alla scoperta di altri luoghi incredibili. Ci fermammo svariate volte per esplorare le zone e cercare rocce dove poter arrampicarci per poter vedere il magnifico panorama.

Ci capitò di incontrare due ragazze olandesi che stavano facendo il nostro stesso percorso a cavallo. Parlammo due minuti e capimmo dalla faccia stravolta che avevano che la scelta di prendere i quad era stata la più sensata. Non so se saremmo sopravvissuti a cinque ore di passeggiata a cavallo.

Come ultimo stop, ci fermammo ad una sorta di porta creata di roccia levigata dalla pioggia e dal vento. Sembrava come se le due snelle rocce che la formavano stessero navigando nella valle e che ad un certo punto si siano incontrate e fermate, lasciando un piccolo spiraglio per attraversarla e goderne appieno la maestosità.
Ci fermammo a fare delle foto da stupidi e poi riprendemmo la nostra via verso Tupiza.

2

Il sole stava calando dietro le rosse pietre, oscurandole. Era come se il mondo stesse calando il suo sipario facendo apparire il suo grande finale. Tornammo dove avevamo ritirato i quad, cioè a casa di Miguel, e scoprimmo che aveva una piscina. Noi eravamo sudati dal caldo torrido e sporchi lerci di tutta la sabbia che i nostri mezzi alzavano e questo fece sì che ci lanciammo dentro l’acqua in mutande senza pensarci due volte.

Miguel rideva e non sembrava importargli molto. Ci diede due asciugamani e una volta rivestiti ci salutò simpaticamente. Tornammo a Tupiza per mangiare qualcosa e poi tornare all’ostello, mentre ci incamminavamo incontravamo tantissimi bambini che per il solo fatto che eravamo stranieri ci salutavano interrompendo qualsiasi cosa stessero facendo.

Senza paura e senza doppi fini. Era semplicemente un saluto, il primo gesto comunicativo di un bambino. Uno dei gesti più puri e sinceri che possano esistere.

Un gesto che ti apre l’anima e che ti fa sperare, per quell’attimo, che esista ancora un mondo vero.

L’indomani saremmo saliti su una jeep che ci avrebbe accompagnato nella famosa riserva naturale di fauna andina Edoardo Avaroa, dove tra fenicotteri che mangiano in lagune rosacee, geyser, lama e vulcani avremmo potuto perdere gli occhi oltre gli altipiani boliviani.

Ma questo sarà nel prossimo articolo. La Bolivia ha davvero tanto da raccontare.

A settimana prossima.

“Lasciateli andare
senza dire niente
Poi
lasciateli che tornino
con gli occhi puri
brillanti
assetati di esperienze
Con la loro
ingenua e meravigliosa
voglia di spingersi
sempre oltre
Con la coscienza
che nella vita
non basta sopravvivere”

Il Bardo

Credits to photo :
Frederik Rønde Fabricius
Samuel Jeffery

 

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Ultima modifica 18 de Maggio de 2016

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